Mio padre aveva preso a cercare mia madre in ogni cosa, perché Dio era in ogni cosa e mia madre doveva essere con Lui. E indicava mia madre anche a me, nel racconto gentile dei suoi segreti. Non lo aveva lasciato per cattiveria o per poco amore, ma per vocazione e mio padre lo aveva compreso, era un uomo buono.
C'era un destino legato a tutti i destini e mia madre vedeva i lacci invisibili di ogni esistenza mortale e la mano di Dio che intrecciava e spostava, lavorava al destino perfetto pur di fronte al destino perfetto che già esisteva. Ma mia madre ne sapeva assai poco, perché aveva soltanto gli occhi belli e profondi e poteva, con quelli, guardare fin dove si spingeva il suo sguardo veggente e poi nulla più. Un morso e una visione e i pezzetti di mela ingoiati avevano fatto giardino nel suo cuore, i rami frondosi di grappoli maturi si erano spinti in alto e i frutti erano buoni e dolci e ci si faceva il nettare degli dei.
Un meleto era presso la nostra casa e mio padre lo chiamava il tempio della mamma e ballavamo e cantavamo nelle notti di solstizio, pregavamo in quelle di equinozio e, nel mezzo di questi movimenti astrali, avevamo nostalgia della mamma del tempio. Le parlavo e le dicevo che mio padre mi parlava di lei e della crescita del rosmarino, cantava di lei e del profumo del mirto e della lavanda, citava il suo cuore e coglieva petali di rosa.
Ma più di ogni altra cosa, mio padre mi indicava ogni giorno il cielo, perché non dimenticassi la mia provenienza e la mia meta, che coincidevano sempre con la mamma e con Dio. Era chiaro e la mamma era l'azzurro, pioveva ed era acqua di vita e sorgente di salvezza, la mamma era Diana dei boschi e il suo saluto si intravedeva nei raggi effimeri che si fanno strada tra i tetti boschivi, lambiscono radici nodose in cui sedevamo ad attenderla. Papà mi guidava tra i sentieri del bosco e, nel silenzio immacolato che sempre si posa sui viandanti, mi diceva di ascoltare.
Silenzio.
Ascolta.
Silenzio. E un passo leggero invita a sostare in trepidante attesa di una brezza gentile. Per guarire dalla noia delle cose, dalla banalità esausta, da tutto ciò che è uguale e destinato a perire. Per guarire dalla morte e dal lutto e avere il lutto di chi piange la scomparsa della morte. Per ripetere l'estate dell'amore in vigilanza dilatata, in un eterno ritorno della felicità perfetta. Ma non troppo e non davvero, perché si sciupa e si svilisce ciò che di intatto si ripete. E mio padre sognava questo e lo immaginava, ma non ci credeva e non lo voleva; lui credeva solo alle visioni della mamma, voleva solo stare con lei.
C'era un destino legato a tutti i destini e mia madre vedeva i lacci invisibili di ogni esistenza mortale e la mano di Dio che intrecciava e spostava, lavorava al destino perfetto pur di fronte al destino perfetto che già esisteva. Ma mia madre ne sapeva assai poco, perché aveva soltanto gli occhi belli e profondi e poteva, con quelli, guardare fin dove si spingeva il suo sguardo veggente e poi nulla più. Un morso e una visione e i pezzetti di mela ingoiati avevano fatto giardino nel suo cuore, i rami frondosi di grappoli maturi si erano spinti in alto e i frutti erano buoni e dolci e ci si faceva il nettare degli dei.
Un meleto era presso la nostra casa e mio padre lo chiamava il tempio della mamma e ballavamo e cantavamo nelle notti di solstizio, pregavamo in quelle di equinozio e, nel mezzo di questi movimenti astrali, avevamo nostalgia della mamma del tempio. Le parlavo e le dicevo che mio padre mi parlava di lei e della crescita del rosmarino, cantava di lei e del profumo del mirto e della lavanda, citava il suo cuore e coglieva petali di rosa.
Ma più di ogni altra cosa, mio padre mi indicava ogni giorno il cielo, perché non dimenticassi la mia provenienza e la mia meta, che coincidevano sempre con la mamma e con Dio. Era chiaro e la mamma era l'azzurro, pioveva ed era acqua di vita e sorgente di salvezza, la mamma era Diana dei boschi e il suo saluto si intravedeva nei raggi effimeri che si fanno strada tra i tetti boschivi, lambiscono radici nodose in cui sedevamo ad attenderla. Papà mi guidava tra i sentieri del bosco e, nel silenzio immacolato che sempre si posa sui viandanti, mi diceva di ascoltare.
Silenzio.
Ascolta.
Silenzio. E un passo leggero invita a sostare in trepidante attesa di una brezza gentile. Per guarire dalla noia delle cose, dalla banalità esausta, da tutto ciò che è uguale e destinato a perire. Per guarire dalla morte e dal lutto e avere il lutto di chi piange la scomparsa della morte. Per ripetere l'estate dell'amore in vigilanza dilatata, in un eterno ritorno della felicità perfetta. Ma non troppo e non davvero, perché si sciupa e si svilisce ciò che di intatto si ripete. E mio padre sognava questo e lo immaginava, ma non ci credeva e non lo voleva; lui credeva solo alle visioni della mamma, voleva solo stare con lei.