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Clifford nel 1988 scrisse "I frutti puri impazziscono". Il testo diventò rapidamente un mostro sacro dell'antropologia, metteva in dubbio la costruzione di identità culturale come qualcosa di stabile, fisso, "puro".
Spesso quando parliamo di civiltà o culture, per semplificare o per incomprensione, ne parliamo come se queste fossero un concetto astorico, un qualcosa di quasi metafisico, ideale: la civiltà cinese, quella maori o greco-ellenistica.
Sappiamo però ormai per certo che ogni civiltà intrattiene dei rapporti, seppur occasionali, con altri gruppi umani e anche se questo non dovesse accadere, il gruppo interagisce con il tempo, con il clima, con l'ecosistema, con virus e batteri, con la tecnologia, presenta dinamiche interne a livello individuale e collettivo. Nessun gruppo esiste in una teca astorica, neanche i popoli delle isole più sperdute sono rimasti invariati nei secoli, figurarsi su tempi più lunghi.
Dobbiamo abituarci a pensare le comunità umane grandi e piccole come dei sistemi dinamici, con sotto-insiemi (dinamiche familiari, dinamiche di potere, economia, ecc) e collegati ad altri insiemi dinamici (flora, fauna, clima, geologia, ecc.) con a loro volta altri sotto-insiemi dinamici.
Per comodità noi possiamo pensare che esista un blocco monolitico: la Russia putiniana, la Francia napoleonica o gli USA degli anni '80, ma le comunità sono complesse e Immaginate (e immaginarie).
Tuttavia esiste una qualche realtà: io sono italiano e qualcosa vuol dire essendo un concetto riconosciuto da me e da terzi. Sono italiano per la lingua, il cibo, le idee e la storia, qualcuno direbbe per genetica (ma è controverso), sicuramente non per la terra (sono esistiti popoli senza terra e i Longobardi sono rimasti tali anche spostandosi a Benevento).
La comunità è reale e al contempo astratta, ci condiziona e la condizioniamo. Un italiano di 100 anni fa ha probabilmente meno cose in comune con noi che uno spagnolo odierno, ma tutti e tre abbiamo più cose in comune tra noi che con Alessandro Magno ed Omero, ma tutti ricadremmo nell'etichetta (moderna) di civiltà occidentale.
L'errore nasce dal considerare le dinamiche umane come "stati" (nel senso fisico di condizione permanente) invece che "processi" (dinamiche). Per comodità, noi possiamo parlare di un'entità astratta che avrà una qualche valenza sia per chi la viveva, sia per noi estranei (la comunità berbera, ad esempio), ma dobbiamo pur sempre tener presente che ogni comunità comunica col mondo e cambia nel tempo, conservando alcuni aspetti e perdendone altri, preservando una continuità in virtù di queste scelte (la Cina rivendica continuità millenaria, ma nessuno oggi direbbe che in Italia siamo la continuazione diretta della Roma antica, se non creando un passato immaginario e quindi come tale fantastico).
Nessuno di noi può tornare indietro nel tempo e chiedere a un cinese di 1500 anni fa, cosa pensi dei cinesi odierni (saremmo anche a grave rischio paradosso temporale, lasciamo stare: è una pessima idea); ma possiamo immaginare alcune cose in base ai valori condivisi in quel gruppo, sia a livello diacronico che sincronico. Al contempo, è facile pensare che un tibetano odierno e uno di mille anni fa, darebbero risposte molto diverse.
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