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Caligorante

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Accadeva centocinquantaquattro anni fa. 17 novembre 1869. Il chedivato d'Egitto inaugura il Canale di Suez. Per l'occasione, il chedivè (viceré egiziano in orbita ottomana) Ismail commissionò a Giuseppe Verdi l’Aida. Il canale di Suez, che collega direttamente il Mar Mediterraneo al Mar Rosso, fu voluto e realizzato dalla Francia. L'imprenditore e diplomatico che progettò e fece costruire il Canale, Ferdinand de Lesseps, era francese come la maggior parte del capitale investito in questa impresa. L'infrastruttura, fondamentale per proteggere la rotta delle Indie, finì nel mirino dei britannici. Lord Derby, ministro degli Esteri britannico, in un discorso alla Camera dei Lord ebbe a dichiarare: «Il canale è la nostra grande via per l’India. Abbiamo bisogno del completo possesso». E il lavorio per raggiungere lo scopo fu graduale e diabolicamente sofisticato. La prima fase consistette nello spingere l’Egitto a indebitarsi, seguendo il miraggio dell’ammodernamento rapido e facilone. Andavano potenziati ferrovie, strade, porti, esercito. Per farlo servivano capitali. E la City di Londra, attraverso i Rothschild, era lì pronta rifornirli di credito a strozzo. Le condizioni svantaggiose imposte fecero sì che in poco tempo il debito estero accumulato fosse tale da costringere le autorità del Cairo a vendere a Londra le loro azioni nella società che gestiva il canale: nel 1874, prossimo alla bancarotta, il chedivè – un po' come al-Sisi oggi – offrì di vendere per 4 milioni di sterline le proprie azioni nella Società del Canale di Suez. Il Primo ministro del Regno Unito, Disraeli, non si lasciò sfuggire l’occasione e rilevò il 44% delle azioni del Canale. Nel 1879 il chedivè, che aveva osato ribellarsi ai creditori, venne deposto in favore dell'ameboide figlio Tewfiq. Ma quando Tewfiq venne rovesciato dai militari egiziani guidati da Arabi Pascià, divenne chiaro che si stava compiendo una manovra per affrancare l’Egitto dal giogo economico straniero. La totale inadempienza da parte egiziana nel debito con l’estero divenne una minaccia inaccettabile per la finanza e gli interessi strategici britannici. Ad Alessandria vi erano aperte sommosse che mettevano in pericolo i 37.000 residenti europei. Spinto dai falchi del suo Gabinetto, e sentendosi assicurare dai Rothschild che i francesi non avrebbero sollevato obiezioni, Gladstone accettò, il 31 luglio 1882, di «farla finita con Arabi Pascià». Navi britanniche bombardarono i forti di Alessandria. Il 13 settembre, a Tet-el-Kebir, la forza d’invasione del generale Sir Garnet Wolseley colse di sorpresa e decimò l’esercito ben più numeroso di Arabi. Il giorno successivo gli inglesi occupavano il Cairo; Arabi venne imprigionato e spedito a Ceylon. Nelle parole di Lord Rothschild, era ormai «chiaro che l’Inghilterra doveva avere il futuro predominio» nella terra delle piramidi. Gli inglesi tuttavia cominciarono a rassicurare le altre potenze che la loro presenza era soltanto un espediente temporaneo, e ripeterono questa assicurazione fino al 1922! Distratti dal bellicoso Mahdi in Sudan nonché dalle tensioni con la Francia nella fascia sahariana, spinsero l'Italia a colonizzare l'Eritrea, in modo da avere una media potenza amica come sentinella del Mar Rosso. Formalmente, l’Egitto continuava a essere indipendente. In pratica, però, era governato dalla Gran Bretagna come un protettorato occulto, con la sovranità ufficiale detenuta da un sovrano fantoccio e il vero potere nelle mani dell’agente e console generale britannico. L’occupazione dell’Egitto originata dalla costruzione del canale di Suez aprì un nuovo capitolo nella storia imperiale britannica, dando il via alla corsa all’Africa. Originally posted in:
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"I' mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando"

Purgatorio, canto XXIV

Per me, la scrittura è questo e credo che i miei due amori, Dante e San Giovanni apostolo, la rappresentino alla perfezione.

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«Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch'io;
e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio.»
(Rut 1:16)

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"Vedesti", disse, "quell'antica strega

che sola sovr'a noi ormai si piagne;

vedesti come l'uom da lei si slega.

Bastiti, e batti a terra le calcagne;

li occhi rivolgi al logoro che gira

lo rege etterno con le ruote magne".

Purgatorio, canto XIX, vv. 58-63

Siamo alla fine del girone degli accidiosi e Dante fa un sogno: una femmina "balba (balbuziente)", cieca, storpia a mani e piedi e dal colorito smorto. Ma l'essere umano non la vede nel suo reale aspetto, bensì attraverso il filtro del suo richiamo seduttivo. Questa femmina, infatti, è un'allegoria dell'incontinenza verso i piaceri terreni, in particolare l'avarizia, la lussuria e la gola, puniti nei gironi successivi. È quindi, questo, un sogno che anticipa quello che Dante dovrà incontrare nel suo viaggio.

Al suo risveglio, Virgilio nota che la sua mente è ancora occupata dal ricordo del sogno e lo incita a passare oltre attraverso i versi che ho scelto di riportare.

Virgilio è sbrigativo e lo esorta a non perdere tempo a rimuginare sul peccato, ma di andare avanti e guardare alle cose celesti.

Troppo spesso, di fronte alle miserie che ci abitano, ci crogioliamo nel nostro non essere degni di accostarci ai santi, troppo spesso ci giudichiamo "troppo peccatori" e questo giudizio implacabile si pone come un ostacolo al cammino verso Dio.

Ma, una volta preso atto di non essere immacolati e perfetti secondo la nostra idea di perfezione, dobbiamo avere il coraggio di presentarci a Dio così come siamo: pieni di difetti, manchevoli, fallibili.

I nostri genitori non ci amano forse nonostante i nostri errori? E come potrebbe Dio non farlo, se sinceramente ci volgiamo a Lui con tutto il carico di vergogna, ma anche di devozione, che portiamo addosso?

Ma a Lui dobbiamo guardare, non a noi stessi, perché dalle tenebre si esce grazie alla luce, e la luce che possiamo trovare in noi non è altro che luce divina.

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